La mappa dei vinti: Capitolo 1 e Capitolo 2 (un romanzo by @kork75)
Capitolo 1 "L'ombra di Trieste - Trieste, febbraio 1952"
A Trieste, nel febbraio del 1952, la città era avvolta da un grigiore che non era solo nebbia. Sospesa tra il controllo anglo-americano e l'attesa di una piena integrazione italiana, il suo stato d'animo rispecchiava quello di Enea De Lorenzi, un uomo spezzato quanto la città stessa.
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Il sole era sorto, ma Trieste lo ignorava. La notte aveva lasciato un'umidità che penetrava fin nelle ossa, pozzanghere scure e silenzi pesanti. L'alba non portava colori, solo un pallore di piombo che si mescolava alla nebbia, tagliato dalle sagome fredde dei capannoni portuali. Il mare era piatto, immobile, denso e pesante come olio. Un chiarore smorto filtrava tra i silos e i binari della Zona A del porto, la parte ancora sotto controllo anglo-americano. Era un confine silenzioso ma percepibile ovunque: nei cartelli bilingue, nei soldati alleati che pattugliavano con occhi annoiati, nei caffè dalle insegne straniere e nei container marcati "US Navy" che stazionavano come reliquie in disuso. Tutto era immobile, sospeso. La città tratteneva il fiato, non in attesa del nuovo giorno, ma di un verdetto. Una sentenza che un giorno l'avrebbe restituita all'Italia. E quella sentenza, prima o poi, sarebbe arrivata.
Camminava lì, tra i magazzini 18 e 21, Enea De Lorenzi. Aveva le mani in tasca e lo sguardo basso, fisso sulle scarpe logore, una delle quali senza stringa. Indossava un pelcot della Marina americana: lungo, pesante, con il bavero alzato fino agli zigomi. Il freddo era tagliente, ma senza vento; la bora, quella mattina, taceva. Un berretto di lana grigio gli copriva la testa fin quasi agli occhi. Sotto, i capelli castani, schiacciati, erano incrostati d'umidità. Il suo fiato sapeva di vino e i muscoli erano indolenziti. Aveva passato la notte su una sedia fuori da un'osteria del Canal Grande, con una mezza bottiglia di Terrano in grembo e una coperta prestata sulle spalle. Intorno, solo il rumore dei passi sbilenchi degli ultimi ubriachi e qualche bestemmia nel buio. Si era addormentato là, con gli occhi semiaperti e la bocca secca.
Aveva addosso quarantasette anni vissuti, più alcuni che non voleva contare. Era nato a Roma, ma a sette anni si era trasferito in Eritrea. Lì crebbe tra baracche di sottile muratura, il rumore delle pistole a tamburo e il profumo del caffè tostato sul carbone. Suo padre, funzionario del Ministero dell'Africa Italiana, coltivava cotone e impartiva ordini. Per questo, da bambino, aveva imparato prima l'amarico che il congiuntivo. Camminava ancora con un'andatura regolare, quasi da parata. Un riflesso del corpo. Non della volontà. Marciava come un tempo, ma l'alcol gli spezzava i passi in piccoli, impercettibili inciampi. Barcollava con disciplina. La spalla sinistra gli tremava a ogni metro, un ricordo di guerra. Ogni tanto si fermava, poi riprendeva come se nulla fosse. Era il porto a guidarlo, metro dopo metro, dentro la pancia molle della città.
Nella tasca interna del cappotto, c'erano circolari, decreti e dispacci stropicciati. Portavano il timbro della Marina Militare Italiana: un ordine di richiamo. De Lorenzi conosceva il senso di quelle carte a memoria. Avrebbe dovuto presentarsi tra tre giorni all'Accademia Navale di Livorno per aggiornamenti, una verifica attitudinale, un corso di formazione. L'obiettivo era un reintegro in servizio permanente effettivo. Un ritorno del tutto inatteso. Dopo la guerra, la Regia Marina, ormai Marina Militare, aveva iniziato a ricostruire. Enea conosceva bene la prassi: i reduci venivano censiti, interrogati e valutati. Era una faticosa selezione per capire chi fosse ancora utile. A qualcuno toccava un'indennità, ma a chi si reggeva in piedi nonostante traumi e logoramenti andavano ruoli d'ufficio o d'archivio. Lui, un veterano decorato, con un fascicolo impeccabile, ma una cartella clinica che parlava di profonde cicatrici psicologiche e segni di maltrattamenti subiti durante la prigionia, era stato rimesso in lista. Quelle carte non erano solo ordini. Erano un giudizio sospeso. Un invito a fare ancora qualcosa. O forse solo un modo per usare chi non era ancora del tutto crollato.
Il giorno prima, da un rigattiere del porto, aveva comprato per poche lire un gessato scuro e un paio di scarpe semi usate. Erano stati di un esule istriano, ma non si era fatto problemi: erano gli unici abiti che poteva permettersi, quelli che avrebbe indossato per presentarsi all'Accademia. A completare l'uniforme improvvisata, c'era l'unica camicia bianca da ufficiale di marina ancora in buone condizioni e una cravatta nera. I pensieri gli galleggiavano nella mente come gasolio sull'acqua. Era stato un sommergibilista, tenente decorato. Aveva visto l'oceano inghiottire uomini e metallo, era sopravvissuto a imboscate, naufragi e a due anni di prigionia in Germania. Al suo ritorno, nel 1946, su un treno per rimpatriati, aveva ricevuto una medaglia, un applauso stanco e un sussidio pagato in silenzio. Addosso aveva solo una divisa sdrucita e dentro un vuoto che non si lasciava raccontare. L'Eritrea, dove tutto era cominciato, era ormai solo un'eco lontana. Non era più Italia, e da tempo non era più casa. Anche a Roma, gli ultimi parenti avevano voluto dimenticarsi dei De Lorenzi, "colonialisti in camicia nera". Sentiva ancora il peso di quel rigetto, un'altra battaglia che aveva perso in silenzio.
Trieste, invece, gli apparteneva. Il dialetto non gli era estraneo, i nomi delle vie gli tornavano alla memoria come vecchi compagni. Aveva fatto la scuola sommergibilisti a Pola e da lì era passato spesso. Quando scese dal treno per ritirare i primi soldi del sussidio, pensò che bastasse. In attesa di ricevere l'assegno di guerra, a Trieste c'era mare, vino, silenzio e nessuno che gli chiedesse chi era stato, né cosa avesse perso. Rimase. Prima della guerra, era stato ufficiale in seconda nella marina mercantile. Aveva navigato mezzo mondo e conosceva il Mediterraneo come il palmo della mano. Ma dopo il congedo, nessun imbarco. Le compagnie, da Venezia a Genova, da Ancona a Napoli, lo evitavano. Dicevano che era instabile. "Nevrosi da guerra", come riportava il fascicolo sanitario. E poi c'era il carattere: riservato, ma rude e rissoso se provocato. I tatuaggi coloniali su braccia e schiena, sbiaditi e ingombranti, parlavano di un'altra epoca. "Troppo africano per essere nostro," mormoravano gli armatori. Quel lento, costante rigetto lo aveva trascinato giù. Prima l'alcol, poi i sedativi. Una rampa d'uscita, o forse solo un rifugio. Ogni tanto, qualcosa gli dava tregua: un barbiturico scambiato per due pacchetti di tabacco, o, più raramente, una pallina d'hashish, arrivata con un cargo dal Corno d’Africa. Se la passavano in silenzio, dietro i container, uomini che avevano visto troppe sponde e dimenticato tutte le bandiere. Ne bastava poca per spegnere il rumore. Nessuno lo fermò lungo il suo declino, nessuno gli chiese di tornare a essere un uomo. Fino all'arrivo del postino che il mese precedente gli consegnò un plico raccomandato: mittente Ministero della Difesa.
Profilo dei Personaggi
Enea De Lorenzi
Il passato di Enea De Lorenzi è un mosaico di terre e battaglie perdute. Nato a Roma, ha trascorso l’infanzia sotto il sole dell’Eritrea, dove ha imparato l’amarico prima dell’italiano corretto. Questa duplice eredità lo ha reso un uomo senza una vera patria, uno sradicato che l’Italia ha etichettato come “colonialista”.
La sua vita è stata un’onda di mare. Da ufficiale sommergibilista decorato, con un passato nella marina mercantile, è precipitato in un abisso di guerra e prigionia. È sopravvissuto all’affondamento del suo sommergibile e all’orrore del campo di Sachsenhausen. È tornato a casa con una medaglia, ma anche con ferite invisibili: una spalla lussata, una psiche tormentata e una diagnosi di “nevrosi da guerra” che lo esclude dal mondo del lavoro.
Nel 1952 vive a Trieste, una città che, come lui, è un confine, sospesa tra il passato e un futuro incerto. Lì, in un porto che non offre più alcun orizzonte, affoga i suoi fantasmi nell’alcol, cercando di dimenticare la sua identità. La sua solitudine è interrotta solo da un inatteso ordine di richiamo dalla Marina Militare: un segno che, forse, il mare, ancora una volta, lo sta chiamando a sé.
Timeline degli Eventi:
1905: Enea De Lorenzi nasce a Roma.
1912: Si trasferisce in Eritrea con la sua famiglia.
1938: Si arruola volontario nella Regia Marina e frequenta l'Accademia Navale di Livorno.
1939: Frequenta la scuola sommergibili a Pola.
1940: Perde il padre durante i bombardamenti inglesi su Massaua.
6 marzo 1943: Il Regio Sommergibile Persico affonda; Enea è l'unico sopravvissut0.
1943–1945: È prigioniero nel campo di internamento di Sachsenhausen, in Germania.
1946: Ritorna in Italia, segnato da profondi traumi psicologici.
1946–1952: Si stabilisce a Trieste, vivendo una vita tormentata e solitaria.
1952: Riceve un ordine di richiamo dalla Marina Militare per un possibile reintegro in servizio.
Capitolo 2 "Alena e il vagabondo - Trieste, febbraio 1952"
Il volto di Alena era un atlante di terre perdute. I suoi grandi occhi neri racchiudevano la tristezza dei Balcani, un confine mobile di fughe e solitudine. Era una sopravvissuta, come lui. Ma mentre Enea cercava di annegare il passato, lei lo portava addosso come una mappa di ferite che nessuno avrebbe mai potuto toglierli.
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De Lorenzi viveva in una stanza ammuffita al sesto piano, vicino a piazza Ponterosso. Il bilocale era angusto, con muri ingialliti dall’umidità e una finestra vecchia da cui filtrava una luce fioca, appena sufficiente a illuminare l’arredamento scarno e trasandato. L’aria stagnante portava l’odore di muffa e di un passato mai del tutto cancellato. Da circa un anno divideva l'affitto con Alena, una donna slava fuggita da un paese governato dalla mano ferma di Tito. Era arrivata sola, senza famiglia né appoggi, portando con sé il peso di una vita fatta di paura, silenzi e fughe. Enea la trovava bella, ma di una bellezza appassita. Aveva trentanni e i suoi grandi occhi neri raccontavano di notti insonni e giorni duri, di una solitudine che nessuno poteva colmare. Alena si guadagnava da vivere con lavori saltuari e qualche scelta disperata. Spesso il suo sguardo evitava quelli degli altri, e nelle pause tra una parola e l’altra un’ombra di tristezza le sfuggiva. La sua voce, quando parlava, tremava più della sua mano e il silenzio che la seguiva era un muro difficile da attraversare. Lui lo sapeva, ma non aveva la forza di fermarla, né la voglia di affrontare quella verità che si stendeva tra loro come una nebbia densa.
La sera prima, tornando dal barbiere, le aveva detto che sarebbe partito. Alena non aveva mostrato di ascoltarlo. Era persa a guardare fuori dalla finestra, ma lo vide riflesso nel vetro. Si voltò e gli disse:
"Stai bene con quel taglio e la barba fatta".
Enea l'aveva trovata in cucina, nella sua vestaglia stropicciata e troppo larga. Sembrava un'armatura troppo grande per lei, fragile contro un mondo che non offriva tregua. I lunghi capelli neri ricci le incorniciavano un volto in cui ogni linea sottile era il conto di un giorno andato, di un passato mai dimenticato. La sua voce, roca e dolce insieme, aveva un sapore amaro, come il fondo di una tazza di caffè.
"Parti davvero?", domandò lei.
Enea rispose che lo avevano assegnato a Livorno, che era una buona occasione. Alena annuì, il volto una maschera opaca. Provò a sorridere, ma la tristezza nei suoi occhi neri si rifiutava di obbedire. La loro convivenza era più un’abitudine che un legame, un continuo scambio di silenzi e gesti distratti. Erano due corpi a riscaldarsi a turno in un letto condiviso più per necessità, tra indifferenza, mozziconi spenti e bottiglie vuote.
Enea passò sotto i portici del mercato. L'aria era un mix indigesto di pesce e vino acido, un odore così forte da fargli male, come un colpo alle ossa.
"Ehi, Africano!", lo chiamò una voce.
Enea non si voltò. Sentì i muscoli della spalla ferita tendersi.
"Me dai una man con 'ste casse? Te dago qualcossa, dai!"
"No, oggi passo," rispose Enea senza guardarlo.
"Te l'ho già detto."
"Sempre a tirarte indrio, eh? No te cambi mai, no?" ribatté l'uomo, il tono triestino tagliente come una lama.
"Non è questione di cambiare. Solo che oggi non posso. Lasciami stare," mormorò Enea, lo sguardo fisso sulle scarpe.
"E alora, cosa te fa qua?"
"Torno a casa", rispose Enea, ma la parola gli morì in gola, un'eco vuota nel rumore del porto.
Da lontano, un'altra voce mormorò, più bassa, più vile:
"El ga roba strana in lu,... troppo nero!". Enea non sentì le parole con le orecchie. Le sentì sotto la pelle, come una puntura.
Svoltò l'angolo del magazzino 23, verso il vecchio viottolo ferroviario. Tra le rotaie bagnate, qualcosa si mosse: un cane spelacchiato, magro fino all'osso, con il pelo bianco e fulvo incrostato di fango. La corda sfilacciata e sporca che gli pendeva dal collo era l'unico segno di un passato forse ancora più crudele. Sul dorso, una ferita aperta raccontava di abbandono e dolore. Il cane zoppicava, tremava e i suoi occhi grandi e lucidi fissavano Enea con stanchezza, come se avesse già imparato a non sperare. Sembrava un asino bastonato. L’uomo lo guardò e vide riflessa in quegli occhi stanchi la sua stessa condizione: due corpi segnati, randagi, sfuggiti a un passato troppo duro, sopravvissuti a un mondo che li aveva dimenticati. Allungò la mano e lo accarezzò dolcemente sotto il muso.
"Vagabondo. Che ci fai qui?"
Il cane si strusciò contro le sue gambe, tremando.
"Ma che ti hanno fatto?"
Scodinzolò così forte che il suo corpo esile vibrò, e il muso sporco sembrò quasi sorridere. Lo seguì a fatica per tutta la strada, un'ombra fedele e silenziosa. Salì persino i sei piani di scale, ansimando ma senza mai fermarsi. Una volta sul pianerottolo, si accucciò in attesa.
Enea bussò, tenendo il cane stretto tra le braccia. Alena aprì la porta, gli occhi stanchi velati dall'alcol che caddero subito sulla creatura.
"Cos'è questa roba?"la sua voce, un filo di rasoio, tagliò il silenzio.
"Mi ha seguito", rispose Enea, la mano tesa verso l'animale.
"Fuori! Le pulci, no! Via… tutti e due!".
La porta si chiuse con un colpo secco, il rumore a inghiottire il silenzio del pianerottolo. Il cane si rannicchiò, la coda stretta tra le zampe. Enea si sedette accanto a lui, la schiena contro il muro gelido.
"Ti chiamerò Bogo", sussurrò, per la sua aria beata. Il cane alzò le orecchie, un cenno di attenzione. Forse approvava. Si addormentarono lì, fianco a fianco, a spartire il freddo e il silenzio.
Passarono un paio d’ore e il cane cominciò a tremare forte, scosso da brividi profondi. Enea lo strinse a sé. Sentiva l'aria gelida mordere la sua stessa pelle, e capì che non c'era più tempo. Bussò di nuovo, forte. Dall'interno, nessun rumore. Allora spinse la porta con la spalla. Una, due, tre volte. Alla quarta, il legno vecchio cedette con un colpo secco, scardinando il chiavistello con un gemito di legno e metallo. La ragazza era in piedi, immobile nel corridoio, come una statua. Indossava un tailleur verde scuro, stirato ma fuori moda, una camicetta chiusa fino al collo, scarpe logore col tacco basso. Rossetto scuro e capelli ordinati, come per una serata di gala. Ma era piena mattina. Nella mano destra stringeva la paletta della stufa, come un'arma.
"Via", sibilò, la voce roca e l'alito che sapeva forte di gin.
"Sto aspettando un amico". Enea fece un passo avanti.
"Sta male. Ha freddo. Sta tremando".
"Non me ne frega niente! Fuori tutti e due!".
Alena cercò di spingerlo, ma barcollò. La paletta le sfuggì di mano, la colpì alla tempia con un colpo secco e rimbalzò sul pavimento. Il sangue le colò giù per la guancia, una linea rossa sul fondotinta pallido. Enea esitò. Poi, senza dire una parola, la sollevò e la portò a letto. La ragazza si lasciò andare come una bambola rotta, i suoi occhi persi cercarono i suoi per un attimo, un lampo di vulnerabilità.
Una voce maschile dal pianerottolo chiamò, più forte: "Alena! Te ghe xe in casa?".
Lei mormorò, mezza cosciente: "Lasciami!".
Poi, in un impeto improvviso, si alzò di scatto. "Resta con quel sacco d’ossa. Io… io ho di meglio."
Barcollò fino alla porta, prese la borsetta e uscì. Oltre la soglia, un uomo di mezza età con un mazzo di margherite in mano spiava l'interno dell'appartamento dalla porta scardinata.
"Andiamo!", gli disse Alena, senza voltarsi.
Enea rimase immobile. Guardò i due allontanarsi e la porta rimasta spalancata, un vuoto nero nel pianerottolo. Sentì il cuore stringersi in una morsa, un'eco gelida di solitudine e rimpianto che gli tolse il respiro. Sapeva che, se non fosse tornata entro domani, non l'avrebbe mai più rivista. La casa, prima già fredda e stretta, ora sembrava un carcere senza finestre. Enea chiuse gli occhi per un momento, lasciando che le lacrime bruciassero in silenzio, una resa senza rumore, sarebbe partito senza salutarla senza dirgli niente.
Poi, si chinò lentamente verso Bogo, accarezzandogli il muso con mani ruvide e tremanti. La pelle gli sembrava troppo sottile, e ogni respiro sembrava un peso insopportabile. Gli scaldò il muso tra le mani, gli preparò una ciotola di latte, un tozzo di pane, un po’ di cavolo rimasto dal giorno prima. Il cane mangiò in silenzio, con lentezza. Poi si rannicchiò piano, accanto al cuscino.
Bogo si spense piano, il respiro che rallentava fino a fermarsi. Nessun lamento, solo il silenzio che avvolgeva per la prima volta quel corpo stanco. Per un attimo, era bastato un semplice sguardo per dargli pace. Come se, per una volta, fosse bastato essere visto. Lui non disse nulla. Con delicatezza, chiuse gli occhi di Bogo con le dita, come a volerlo proteggere ancora un istante. Il giorno dopo sarebbe partito per Livorno. Doveva sistemarsi, pulirsi, ritrovare un contegno.
Tre mesi di corso, una verifica, e poi un nuovo incarico lo attendeva. Non era una rivincita o una ripartenza: solo un’ultima sosta, un riparo provvisorio prima di sparire del tutto. Pensò. A lui, però, importava poco. Pochissimo. Quell’incarico valeva solo un assegno da incassare, un’altra bottiglia da svuotare, un altro silenzio da bere.
Ma prima, aveva un ultimo dovere. Nel terreno gelato del Carso, tra rocce spaccate e fango duro di brina, scavò una buca. Con mani lente e il respiro corto, posò Bogo sotto la nebbia densa, sotto la terra fredda e silenziosa. Lo seppellì senza parole, come se quel gesto potesse chiudere un capitolo mai davvero iniziato.
Profilo dei Personaggi
Alena Pavelic
Il volto di Alena è un atlante di terre perdute. I suoi grandi occhi neri racchiudono la tristezza dei Balcani, un confine mobile di fughe e solitudine. È una sopravvissuta, come Enea, ma mentre lui cerca di annegare il passato, lei lo porta addosso, una mappa di ferite che nessuno può leggere.
Donna di trent'anni, slava, Alena è fuggita dalla Jugoslavia di Tito, arrivando a Trieste senza famiglia né appoggi. La sua bellezza è "appassita", il risultato di una vita fatta di paura e scelte disperate. La sua convivenza con Enea è più un'abitudine che un legame, un'unione di due solitudini in un appartamento umido e triste.
La sua fragilità si manifesta in un'aggressività che spinge via chiunque tenti di avvicinarsi, anche un cane randagio che le ricorda la sua stessa condizione. Il suo gesto finale di andarsene con un altro uomo sottolinea come, per lei, la sopravvivenza abbia la priorità su qualsiasi legame affettivo, lasciando Enea a confrontarsi, ancora una volta, con la solitudine.
Timeline degli Eventi:
1922: Nascita di Alena in un paese balcanico.
1945–1952: Vive in Jugoslavia sotto il regime di Josip Broz Tito in un contesto di paura e fughe.
Pre-1952: Fugge dalla Jugoslavia e arriva a Trieste da sola.
1951–1952: Inizia a convivere con Enea.
Febbraio 1952: Abbandona Enea dopo un'ultima discussione, scegliendo di andarsene con un altro uomo e lasciando il proprio futuro incerto.
Continua...
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